mercoledì 15 febbraio 2012

La Scuola Holden di Torino promuove a Lucca un corso di sceneggiatura nella Casa Associazioni Laicali


Prima collaborazione tra la nota scuola di Baricco, Cescot Confesercenti e Cineforum Ezechiele.

Come si passa dal foglio di carta a una sala buia e piena di gente dove corrono immagini e suoni? Come fanno delle parole a diventare Matrix? Insomma che cosa significa scrivere un film? Cos’è una sceneggiatura e perché si chiama così? Tecnica o estro? Sono queste alcune delle domande a cui proverà di rispondere il corso di base di sceneggiatura promosso a Lucca, a partire da febbraio, dalla Scuola Holden di Torino, la scuola di scrittura fondata da Alessandro Baricco.

Il corso si svolgerà nella nostra città a partire dal mese di febbraio grazie alla collaborazione nata tra la scuola torinese, il Cineforum lucchese Ezechiele 25,17, la Confesercenti di Lucca e la Consulta delle associazioni laicali che ospiterà il corso nella sede di via S. Nicolao. «Si tratta di una opportunità per la nostra città – ha dichiarato il direttore della Confesercenti Emanuele Pasquini – che vogliamo pensare come l’avvio di una collaborazione per il futuro con la prestigiosa scuola di Baricco. Per questo abbiamo ricercato questo primo percorso di sinergia e ci auguriamo che questa prima iniziativa possa essere foriera di nuove e più ampie collaborazioni con il nostro territorio».
«Per noi – ha aggiunto il presidente del Cineforum Ezechiele Maximiliano Dotto – è un ulteriore tassello del nostro modo di intendere il Cineforum, come progetto di visione, ma anche di educazione all’immagine, di animazione culturale, ma anche di sostegno alla formazione. Alcuni di noi hanno in passato avuto occasione di seguire percorsi della Scuola Holden a Torino. Poter offrire ad altri oggi l’opportunità di seguire questi percorsi nella nostra città è un risultato che ci fa molto piacere».

Il corso si svolgerà a febbraio per 20 allievi e sarà articolato in serale con 20 incontri di 2 ore ciascuno a cadenza settimanale. Per iscrizioni e informazioni è possibile rivolgersi alla scuola Holden di Torino alla email info@scuolaholden.itTel. 011 6632812

 «Il corso di Sceneggiatura Cinematografica di base della Scuola Holden – sottolinea il docente Alberto De Magistris - è aperto a tutti e non richiede conoscenze specifiche, se non la voglia di indagare il mondo della narrazione per immagini. Negli anni passati si sono avvicinati al corso semplice appassionati di cinema o di scrittura e persone alla ricerca di una carriera da sceneggiatore. L’obbiettivo è quello di imparare un metodo di scrittura, di capire cos’è una sceneggiatura, di capire come si passa da inchiostro stampato sul foglio a immagini che scorrono sullo schermo, perché per quanto complicato o fantascientifico possa essere un film il primo passo è sempre quello di aprire un computer e battere sui tasti. Il tutto verrà condito dalla visione e dall’analisi di spezzoni di film, per imparare a muoversi nel mondo della messa in scena e a ragionare per immagini mentre si scrive».

giovedì 9 febbraio 2012

Due protagonisti del dialogo interculturale ed interreligioso tra Occidente cristiano e India: Raimon Panikkar e Henri Le Saux

La storia culturale del Novecento è segnata dallo sviluppo di relazioni interculturali (con l’emergere di un rinnovato fascino dell’Oriente, di cui costituiscono una spia significativa il successo dei libri di Tiziamo Terzani e la inquieta ricerca spirituale di Franco Battiato) e dall’avvio del dialogo tra le Chiese cristiane e le religioni orientali, che, dopo il contributo determinante di Gandhi e di figure a lui legate (come Lanza del Vasto, al quale è stato dedicato un convegno di studi tenuto a Bologna il 18 novembre scorso),  si è intensificato dopo il Vaticano II. Il dialogo tra Occidente cristiano e spiritualità indiana si è sviluppato a diversi livelli: da quello culturale (con la ricezione in Occidente della teoria e della pratica della “non violenza” di matrice gandhiana) a quello teologico (mediante un ripensamento delle categorie teologiche proprie della tradizione cristiana greco-latina e posttridentina e vari tentativi, talora arditi, di inculturazione della fede cristiana in un contesto assai diverso) ed infine spirituale, con l’assunzione in ambito cristiano di forme orientali di meditazione (come lo yoga) ed un approfondito confronto tra le esperienze monastiche dei due mondi.

Ricollegandosi alla ricerca spirituale dell’abate Monchanin (1895-1957), che aveva cercato di «incarnare il cristianesimo secondo il modo di vivere, la preghiera e la contemplazione della cultura indiana», il monaco benedettino Henri Le Saux (1910-1973), giunto in India nel 1948,  incontrò il mistico indiano Sri Ramana Maharashi ed assunse il nome indiano di Abhishiktananda, cercando insistentemente punti di contatto tra l'antica tradizione monastica indiana e la tradizione dei padri cristiani del deserto da un lato e l'odierna ricerca di nuove forme di vita religiosa dall'altro, nella convinzione che solo un contemplativo può comprendere l'interiorità di un'altra tradizione spirituale. Insieme a Monchanin egli fondò l'ashram (monastero) cristiano contemplativo di Shantivanam («Bosco della pace»), assumendo anche l'abito dei sannyãsi (asceti) indiani e sperimentando il «discendere nelle profondità di se stesso» e l’ Adavaita, ossia la mistica della non-dualità; successivamernte condusse vita eremitica, sperimentando il pellegrinaggio sull’Himalaya, ove si ritirò definitivamente nel 1968, affidando la comunità di  Shantivanam al camaldolese Bede Griffiths (1906-1993), che attrasse altri monaci occidentali in India. Le Saux diede un importante contributo al processo di indianizzazione della liturgia, partecipando nel 1969 al «Seminario nazionale della chiesa d'India» di Bangalore. Egli ha saputo unire in sé i due mondi, vivendo una doppia esperienza per servire da ponte tra di essi: un’operazione non priva di tensioni, in quanto «il pericolo di vivere come ponte consiste nel fatto che si rischia di appartenere ad una parte, mentre si deve appartenere in tutto e per tutto ad ambedue le parti, per quanto possa essere difficile. Ciò è possibile soltanto nel mistero di Dio». Con ciò egli ha mostrato l’insufficienza di un confronto puramente intellettuale che non implichi un incontro vivo di esperienze, «nella cavità del cuore», e ha testimoniato che è possibile vivere in profondità la spiritualità dell’Oriente senza  rinnegare le proprie radici cristiane.

Le Saux ha osservato che «siamo troppo abituati a considerare il Cristo come possesso di una parte dell'umanità, cioè i cristiani, ed a pensare che l'incontro con il maestro di Nazareth possa avvenire solo per la strada che noi abbiamo percorso. Abbiamo dimenticato che Gesù era un ebreo e che erano ebrei i suoi primi compagni; abbiamo dimenticato che la strada verso il Signore dalla cultura giudaica è passata a quella greca e poi a quella latina e quindi può passare attraverso altre culture, altri uomini e altre esperienze». Da parte sua il teologo Panikkar (1918-2010), nato da padre indiano e indù e da madre catalana e cattolica, ha proposto, contro ogni tentazione monista, il modello «pluralista» di Babele, paradigma di un atteggiamento di apertura verso le altre culture, contro ogni tentazione omologatrice; ed ha posto un interrogativo radicale: per essere cristiani bisogna essere spiritualmente semiti e intellettualmente greci?  La risposta non è facile né scontata.

Su questi temi ci confronteremo sabato 18 febbraio alle ore 17,30 a palazzo Ducale, in un incontro pubblico organizzato dal MEIC e dalla Consulta Diocesana Aggregazioni Laicali.  Interverranno don Achille Rossi, parroco a Città di Castello e redattore della Rivista «L’Altrapagina», strettamente  legato all’esperienza di Panikkar, e Paolo Trianni, autore di pubblicazioni su Il monachesimo non cristiano, Seregno 2008, e su Henri Le Saux (Svami Abhisiktananda). Un incontro con l’India, Milano, Jaca Book, 2011, e curatore, insieme ad A. Drago, di un volume su La filosofia di Lanza del Vasto: un ponte tra Occidente e Oriente, Milano 2009.

Riteniamo che un ascolto reciproco tra diverse esperienze religiose ed un dialogo in profondità, condotto con grande rispetto ma evitando i rischi del relativismo e del sincretismo, possano  portare grandi frutti spirituali ed indicare a persone in ricerca una strada diversa rispetto a quell’atteggiamento di esotismo (talora un po’ superficiale) che ha caratterizzato nei decenni passati certi viaggi in India di giovani delusi dalla povertà spirituale della nostra società. La conoscenza dell’altro da noi può forse aiutarci a riscoprire le radici più autentiche e profonde della nostra tradizione spirituale.

sabato 4 febbraio 2012

Associazione Don Franco Baroni e la Giornata del Malato 2012



Il 12, 13 e 14 Febbraio 1998 l’Associazione “Don Franco Baroni” onlus organizzò il convegno nazionale: «A casa è meglio» lanciando concrete proposte di sviluppo delle cure domiciliari in geriatria e oncologia. Sono passati 14 anni e nella nostra società si sono accentuati fenomeni che da una parte accelerano ma dall’altra frenano le attività di assistenza domiciliare. Il concetto sintetizzato nel titolo del convegno del 1998 resta per noi assolutamente valido, ma è anche vero che la casa non è soltanto un luogo fisico e dunque le pareti di un edificio. La casa deve essere accogliente e avere due precisi requisiti: da una parte l’idoneità abitativa dall’altra il consenso all’assistenza domiciliare sia del paziente come della sua famiglia. Ciò potrebbe sembrare facile e anzi scontato perché una famiglia, nell’immaginario collettivo, sa prendersi cura del proprio congiunto malato. In realtà non è così semplice. E’ vero anzi che quando un componente si ammala il nucleo familiare viene sconvolto e profondamente coinvolto nella situazione del congiunto. I nuovi modelli di organizzazione e gestione dei servizi socio-sanitari privilegiano l’assistenza domiciliare rispetto a quella ospedaliera, che in futuro sarà sempre più breve e limitata alla fase acuta delle malattie. Ciò, almeno dal nostro punto di vista, rappresenta un aspetto positivo, perché offre al malato notevoli benefici psicologici, ottenendo anche per le strutture sanitarie una riduzione dei costi. Ma il rischio è che si finisca con lo scaricare sulla famiglia molte e complesse problematiche dovute anche all’insufficienza delle strutture territoriali. Insomma la famiglia viene caricata di onerosi fardelli a livello assistenziale ed economico che portano ad affrontare momenti molto faticosi. Malattie terminali e disabilità degli anziani sono in continuo aumento e sono aggravate dalla solitudine della vedovanza, dalla distanza dai figli che lavorano o dall’unica presenza dei figli unici. Vivere con un anziano non autosufficiente determina inoltre un peggioramento psico-relazionale tanto dell’individuo quanto della famiglia. Ciò avviene in un contesto, sociale e storico, che vede la famiglia attraversata da una crisi senza precedenti. E’ sempre più evidente la fragilità strutturale della famiglia che la rende spesso incapace di reagire alle difficoltà e alle sofferenze della vita. Separazioni, divorzi e convivenze sono in aumento e complicano ulteriormente il problema. Ecco perché l’Associazione “Don Franco Baroni” onlus lancia l’attenzione sul tema della famiglia e sulla sua capacità di accogliere il malato. Se vogliamo sviluppare le forme di assistenza domiciliare dobbiamo irrobustire la famiglia. Enti pubblici e Associazioni di Volontariato come la nostra devono estendere l’attenzione e la cura anche alle famiglie dei malati, instaurando rapporti umani ed affettivi. E’ indispensabile questo sostegno morale alla famiglia perché possa superare il giustificato sconforto. Un accompagnamento premuroso, che richiede periodiche visite a domicilio per aiutare la famiglia a scoprire, nella dolorosa stagione della sofferenza, preziosi valori umani e spirituali. D’altra parte l’assistenza domiciliare, per quanto con il supporto di sempre più preparate équipe curanti e con l’appoggio di autentici e motivati volontari (dunque di persone non pagate ma mosse soltanto da ragioni di solidarietà), costituisce per la famiglia un impegno assai rilevante che si fa via via più intenso con il progredire della malattia, fino a richiedere ai familiari di abbandonare il proprio lavoro e il proprio ruolo nella società. Ecco perché noi sosteniamo che le famiglie hanno bisogno anche di una dote economica che le aiuti a gestire al loro interno le malattie degenerative, critiche e complesse. Soltanto così – per la nostra visione di vita – si potranno prevenire le derive crudeli e disumane nei confronti della vita nella sua fase terminale.