giovedì 26 gennaio 2012

S. Francesco di Sales, patrono dei giornalisti in tempi difficili



A osservare da vicino l’epoca in cui san Francesco di Sales (1567-1622) condusse la sua missione di “pastore senza gregge” e con il compito quasi irrealizzabile di preservare gli abitanti della Savoia dall’influenza protestante, non si fa molta fatica a riconoscervi un tempo di sovvertimento radicale, non molto diverso, nelle sue caratteristiche di fondo, da quello che stiamo oggi vivendo. Allora, si trattava di prendere le misure di un’Europa che si scopriva definitivamente ferita a causa della riforma protestante. Oggi, si tratta di imparare a vivere nel cuore di una trasformazione senza precedenti, della quale conosciamo a grandi linee le origini, ma di cui ci sfugge irrimediabilmente l’esito finale. Dopo tutto, la domanda, ieri come oggi, non è cambiata: è possibile essere cristiani in questo crogiuolo di profonda ridefinizione di tutte le coordinate umane e spirituali? E che tipo di cristianesimo ci è richiesto? E se la risposta di san Francesco di Sales potrebbe sembrarci del tutto in linea con la rigida reazione che la Chiesa cattolica mise a punto nel Concilio di Trento, a ben guardare, la sua esemplare testimonianza cristiana contiene già in nuce i tratti di un cristianesimo dinamico e non più così legato a determinate forme e consuetudini fissatesi nel tempo. Un cristianesimo, per dirlo con Giovanni XXIII, aperto all’aggiornamento e già in ascolto dell’appello delle coscienze personali, nelle quali risuona la vera voce di Dio. Ce ne danno una prova eloquente le parole con le quali san Francesco di Sales descrive uno dei concetti apparentemente più tradizionali dell’esperienza cristiana, quello di devozione, e che gli fu assai caro tanto da essere l’autore della celebre Introduzione alla vita devota (1609). Nella sua prospettiva, in verità, la devozione poco ha a che fare con quello che noi ne pensiamo: essa sarebbe, per molti di noi, poco più che quell’atteggiamento “devoto” con il quale le persone si accostano al mondo della fede, l’essere pii e rispettosi, sensibili ma in modo tale da rimanere sostanzialmente spettatori estranei alla vita di Dio. Il Vescovo di Ginevra, invece, definisce così la devozione: «La virtù della devozione non è altro che una generale inclinazione e prontezza dello spirito a fare quello che sa che è gradito a Dio; è la dilatazione del cuore della quale Davide diceva: Ho corso sulla via dei tuoi comandamenti quando mi hai dilatato il cuore. Coloro che sono semplicemente persone dabbene, camminano sulla via di Dio, ma i devoti corrono e, quando sono molto devoti, volano» (i corsivi sono nostri). La vera esperienza cristiana, insomma, non coincide affatto con la custodia dello statu quo o con la conservazione di una qualche innocua mediocrità o presunta perfezione raggiunta una volta per tutte. Ha a che fare con la prontezza di spirito, con la dilatazione del cuore, non con lo stare immobili e neppure con il semplice camminare, ma con il correre, se non addirittura con il volare. E sono proprio queste le caratteristiche indispensabili anche per essere cristiani in un mondo postcristiano. Alla crisi in atto, in altre parole – e questo vale non meno per i giornalisti cristiani, che riconoscono in san Francesco di Sales il loro patrono –, non si può rispondere che incarnando sempre più e sempre meglio le virtù evangeliche, con uno stile di vita sobrio e dinamico, disinteressato e libero, coerente e solidale, franco e accogliente. È così che si vola e che si riesce davvero – proprio come Francesco di Sales nei suoi tempi difficili – a guardare un po’ al di là delle nostre paure, diventando convinti e convincenti testimoni di speranza.

don Alessandro Andreini, consulente ecclesiastico Ucsi Toscana

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